Libertà

Al mattino presto ci svegliò un rumore assordante; dal finestrino vedemmo un carro armato americano enorme, fermo a poca distanza dalla baracca. Subito ci vestimmo, ad un bastone legammo uno straccio bianco, uscimmo sbandierandolo e ci avvicinammo. Come ci videro il carro si mosse lentamente verso di noi; fu un momento di grande gioia e insieme di paura per timore di non essere riconosciuti.
Si aprì la torretta ed uscì un soldato americano con il mitra in mano; noi gli gridammo “Siamo italiani!”. L'americano abbassò il mitra gridando “Paisà!”: era un italo-americano, figlio di immigrati meridionali, che subito fraternizzò con lo Scognamillo parlando in dialetto. Uscirono anche i suoi compagni dal carro, ci fecero festa e ci diedero sigarette, scatolette di carne e pane bianco. Era il sette aprile del 1945 giorno del mio onomastico e quello fu il giorno più bello della mia vita, ch'io ricordi!
Chiedemmo poi cosa dovevamo fare e dove dirigerci.
Ci consigliarono di superare il paese ed attendere la fanteria. Ci dissero anche che per tre giorni avevamo “carta bianca”, cioè eravamo liberi di fare qualsiasi cosa anche contro i civili tedeschi.
Li salutammo e li ringraziammo. Passando attraverso il paese vidi un carretto a quattro ruote nel cortile di un caseggiato, che ci poteva essere utile. Entrai, e forte di quanto ci avevano assicurato gli americani me ne impadronii. Uscì subito un uomo di mezza età che con furia e con l'arroganza tipica tedesca, incominciò a minacciarci urlando come un'aquila: “Raus! Raus!”, “Via! Via!”.
La mia reazione fu immediata. Tanta era la rabbia che avevo in corpo repressa da anni, che per tutta risposta lo presi a bastonate con quella specie di asta che avevo usato poco prima per sventolare bandiera bianca.
(A questo punto dei miei ricordi, l'amico d'infanzia cui li raccontavo apparve sorpreso: “Non t'immaginavo tanto aggressivo! Qual era dunque il vostro rapporto coi tedeschi, militari o civili che fossero?”.
La mia reazione, a quanto pare, gli era sembrata sproporzionata; e forse un po' lo era. Non tenendo però conto di quegli interminabili 19 mesi di vita precaria e stentata.
Mi bruciavano ancora sulla pelle, infatti, i primi sei mesi al campo 6008, la fame là sofferta, le malattie patite, dalla dissenteria alla tubercolosi; con un unico disperato pensiero in testa: sopravvivere in tali condizioni penose ed umilianti. Così che persino i rapporti di solidarietà e cameratismo tra noi scomparvero, abbrutiti com'eravamo, e solo concentrati sul problema d'arrivare vivi al termine di ogni giornata. Da parte loro i soldati tedeschi non perdevano occasione per ostentare il loro disprezzo e trattarci da miserabili. “Scheisse Mensch” - uomo di merda – era il loro normale, eterno modo di interpellarci. Non si poteva che ricambiarli con risentimento e odio maledicendo con loro anche ogni cosa che sapeva di tedesco.
Vestiti con le nostre vecchie uniformi, ormai logore e strappate, senza uno straccio di coperta per la notte, ricoperti di pidocchi. Tenuti a trasportare all'alba, per svuotarli in una vasca esterna alla baracca, i bidoni pieni d'escrementi e orina: tanto colmi che ci schizzavano ogni volta, e per l'interno giorno ci sentivamo sporchi e puzzolenti, privi di forza per reagire, camminando e lavorando come automi. Senza parlare poi delle “mancanze”: il minimo ritardo alla “conta” del mattino, un allineamento non perfetto in squadra nell'andata e ritorno dal lavoro, e così via. Erano botte dure sul momento. E peggio alla sera, rientrati e inquadrati nel cortile, prima della gavetta d'acqua e rape, dover assistere alla barbara pena d'un compagno incorso in punizione. Col poveraccio spogliato a petto nudo, costretto a sollevare pesi su e giù, e per finire, secchi d'acqua gelata su di lui. Quasi un programma vero e proprio d'annientamento fisico e morale.
La mia sorte successiva, dopo il trasferimento a Fallingbostel fu un po' meglio, grazie al Cielo, di quei terribili sei mesi. Ciò non toglie che ancora oggi a ripensarci, a cinquant'anni di distanza, non mi riesce di provare rimorso per quelle mie poche bastonate a quel tedesco iroso e strepitante. Avevo da rendergli ben altre prepotenze e angherie in quel momento. Chiudo la parentesi).