Otto Settembre 1943

Ero artigliere alpino nella caserma di Rovereto da circa quaranta giorni ed avevo diciannove anni appena compiuti. La mia compagnia, la mattina dell'otto settembre 1943, parte in tradotta per la caserma di Maia Bassa di Merano. Due ore dopo ero già in caserma e in camerata al II piano dell'edificio. Alle undici distribuiscono il rancio; pochi attimi dopo gli altoparlanti della caserma trasmettono il discorso del generale Badoglio che in sostanza dice: “la guerra è finita, ma gli amici di ieri sono i nemici di oggi”.
A dir la verità non capii molto di quel proclama ma, ciò che era certo, i nemici di oggi erano i tedeschi. Non sapevo come comportarmi, come del resto molti dei miei stessi compagni.
Mentre riflettevo sul da farsi mi sento chiamare da un alpino della caserma confinante con la nostra: mi avvicino, lo riconosco è un mio amico di giochi di San Giorgio, rione di Rovereto (lui è più vecchio di me di due anni) che mi dice: “Ermanno, vai subito in camerata, prendi il prosacco che poi assieme torniamo verso il passo delle Palade e quindi a casa, a Rovereto”. Pensai che quella era la soluzione migliore.
Salgo, entro in camerata, prendo il prosacco e faccio per tornare, sulla porta trovo il nostro tenente che non mi fa uscire. Voi siete delle reclute, diceva, non avete fatto il giuramento: nessuno vi torcerà un capello. A questo punto, pur a malincuore rimasi in camerata. Il mio amico (seppi poi al rientro dalla prigionia) riuscì a raggiungere la propria casa. Dopo circa un'ora che ero in camerata, dalla finestra del cortile, vedo un carro armato tedesco e subito dopo sento delle grida che provenivano dalle scale, ma soprattutto si sentiva “Raus-Raus”. Soldati tedeschi entrano in camerata, ci fanno uscire e ci radunano nel cortile della caserma. Anche il mio tenente è prigioniero con altri ufficiali. Dopo due ore partiamo in fila per tre a piedi e dopo quattro ore circa arrivammo a Bolzano in una caserma dove c'erano ancora pochi soldati italiani e ricevemmo l'ultima pasta come rancio. Passammo la notte in camerata con solo paglia per terra, ma era tanta la stanchezza che come mi coricai mi addormentai. Penso ora a quanti fatti erano successi in una sola giornata. Svegliati al mattino presto, i tedeschi ci radunano nel cortile della caserma, ci avviano verso la stazione di Bolzano ove attende un treno merci. Venimmo schierati in gruppi di cinquantasei davanti ad ogni vagone; ecco, in questo momento avviene la prima violenza da parte tedesca. Il soldato che era a nostra guida chiede “Wie viel uhr ist” indicando il polso con il dito indice; qualche mio compagno comprendendo il gesto alzò il braccio guardando l'orologio, a questo punto il militare puntando il mitra si fa consegnare l'orologio. Io ebbi un gesto di reazione e di disprezzo nei confronti del tedesco, ma fortunatamente non se ne accorse. Salimmo sui vagoni, chiusero il portellone dall'esterno e così partimmo per la Germania con destinazione ignota. Nel vagone in cinquantasei non riuscivamo a stare seduti; così ci davamo il turno: il problema erano i nostri bisogni fisiologici. Un mio compagno tirò fuori una baionetta rinvenuta nello zaino e con quella riuscimmo a fare un buco nell'angolo del vagone. Assieme a noi reclute c'erano anche i “veci” che avevano fatto la Russia, e loro ci rincuoravano perché c'era chi piangeva e chi non si dava pace. Io affrontai la situazione con rassegnazione. Passammo tutto il giorno rinchiusi nel vagone e solo verso sera il treno si fermò.
Aprirono il portellone e ci diedero la prima zuppa di acqua e rape: eravamo fermi su un binario morto, si vedeva la stazione poco distante. Dopo circa un'ora riprendemmo il viaggio e passò tutta la notte. Alle prime ore del mattino il treno rallentò ed andò avanti lentamente; dal finestrino del vagone vidi che eravamo su un solo binario lontano da abitati; poco dopo si fermò.
Subito ci aprirono il vagone ed urlando “raus-raus” ci fecero scendere. Seppi dopo che eravamo arrivati al campo M. Stammlager XI-B vicino al paese di Fallingbostel e che eravamo internati militari con nessuna assistenza e costretti a lavorare per il Reich.

1. È una forma italianizzata della parola “prosàc” che nei dialetti dell'area veneto-trentina significa “zaino”; nel nord dell'area il termine indica anche il tascapane o lo zaino tirolese.