Fallingbostel

Dal treno, incolonnati, entrammo nel campo. Era una estensione enorme piena di baracche, tutta circondata da filo spinato; attorno si vedeva in lontananza il bosco. Ogni baracca era formata da dodici stanze ed ogni stanza da dodici letti-castello a tre piani senza materassi, con il piano di nude assi di legno. Subito dopo ci chiamano ed in fila ci fotografano con un numero grande davanti. Il mio è il 151-909 e da quel momento il mio cognome non esiste più. Nel pomeriggio arriva un gerarca fascista accompagnato da due soldati delle SS e davanti alle baracche sale su uno sgabello e ci informa che Mussolini è stato liberato e che se vogliamo ritornare in Italia basta firmare l'adesione, ma se decidiamo di rimanere ci attenderà una vita difficile e soprattutto tanta fame. Tra fischi e urla contro il Duce il gerarca se ne andò. Furono pochissimi quelli che firmarono.
L'adesione che bisognava firmare (ne rileggo il testo trascritto dall'Ass. Naz. ex internati) era: “Aderisco all'idea repubblicana dell'Italia fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituente nuovo esercito Italiano del Duce senza riserva anche sotto il comando supremo tedesco contro il comune nemico dell'Italia repubblicana fascista del Duce e del grande Reich Germanico”. Solo alla sera ricevemmo un mestolo di acqua e rape, un chilogrammo di pane ed un etto di margarina da dividersi in otto. Questo era quanto distribuivano per l'intera giornata.
Due giorni dopo al mattino, in circa duecento ci caricarono sui camion e dopo parecchie ore di viaggio arrivammo in un campo anche quello cintato da filo spinato, all'interno quattro baracche più una usata dal comando tedesco. La baracca era di forma uguale a quella del campo precedente, con letti a castello a tre piani; in più, nella camerata c'era una grande stufa. I tedeschi di guardia erano militari della Wehrmacht, una decina, oltre al comandante. Il campo era prossimo ad un piccolo paese. Poco dopo il nostro arrivo ci radunarono nel piazzale e ci contarono per l'ennesima volta; quindi ad ognuno chiesero che mestiere facevamo in Italia. Quasi tutti, me compreso, rispondemmo “contadini” nella speranza di essere assegnati a un lavoro agricolo. Le nostre speranze si spensero presto; alle sei del mattino seguente, infatti, dopo una tazza di caffè d'orzo partiamo in squadre; percorsi alcuni chilometri di marcia arriviamo davanti ad una grande fabbrica in costruzione. Entriamo nel cantiere; dei civili tedeschi ci prendono in consegna, e a squadre di quindici ci avviano ai diversi lavori.
Capitai nel gruppo che doveva scaricare i mattoni dai vagoni ferroviari. Pensavamo che a mezzogiorno ci dessero il rancio. Solo mezz'ora di riposo invece, e niente rancio. Alla sera, al ritorno, la cena consisteva di un mestolo di acqua e rape, del solito pane e margarina da dividersi per otto.
La fame era tanta, e ad ogni giorno che passava mi sentivo sempre più debole anche a causa del lavoro in cantiere.